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Turchia: un Carcere Panottico per Ottanta Milioni

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Di Kaan Göktas. Originale pubblicato il primo marzo 2023 con il titolo Turkey: Panopticon Prison of 80 Million People. Tradotto in italiano da Enrico Sanna.

Nonostante fosse stato pensato come sistema carcerario, il panottico proposto dal filosofo inglese Jeremy Bentham era in realtà un modo per indurre all’autocensura. Nel panottico i detenuti vivono in celle disposte a cerchio con il lato interno aperto agli sguardi di un sorvegliante che sta in una torre centrale. Il sistema induce i detenuti alla autodisciplina in quanto questi non sanno se in un dato momento sono controllati o meno. Bentham descrive il panottico “un nuovo modo per ottenere potere mentale sulla mente”. Il sistema carcerario è passato dalla teoria alla pratica con la Germania nazista, e con grande successo(!).

Il mio paese d’origine, la Turchia, negli ultimi anni è diventato appunto un carcere panottico con ottanta milioni di ospiti. Tra gli esempi, il sistema di e-government, che inizialmente doveva servire alla digitalizzazione delle istituzioni statali, così da permettere ai cittadini di compiere molte operazioni tramite internet e le applicazioni per lo smartphone senza andare negli uffici (anagrafici o delle tasse, per esempio). Avrebbe dovuto semplificare la vita dei cittadini e ridurre il carico di lavoro dei dipendenti pubblici. Fin dall’inizio, invece, ha assunto la funzione che ha la torre di controllo in un carcere panottico. E poi c’è il CİMER (centro comunicazioni al presidente), una sorta di “linea diretta” con cui i cittadini avrebbero potuto esporre lamentele, suggerimenti o semplici desideri alle più alte istituzioni statali e alla presidenza (al capo dello stato in persona). Di fatto, invece, poco dopo il varo il centro ha assunto funzioni tra il pubblico ministero e il comando di polizia.

Tra chi partecipa a dibattiti politici accesi sui social, soprattutto in tempi di elezioni o di crisi economica, c’è spesso chi non esita a copiare da Facebook e Twitter dichiarazioni non condivise o odiate per denunciarle direttamente al presidente Recep Tayyip Erdoğan tramite CİMER. Inutile dire che a farlo sono sempre sostenitori del partito islamista AKP di Erdoğan o del suo alleato, l’ultranazionalista MHP. A finire sotto accusa è chi critica pubblicamente il regime di Erdoğan e la politica del governo AKP-MHP. Purtroppo, gli utenti turchi dei social non riescono a dibattere civilmente con persone con cui sono in disaccordo, così come non riescono ad ignorare frasi e discussioni fuori dalla loro portata.

Anche altrove c’è chi protesta contro punti di vista o espressioni non condivise. Soprattutto Facebook e Twitter, che con i loro meccanismi fanno da “centro di controllo panottico”, sono inondati da miliardi di richieste di cancellazione, in tutto il mondo, di messaggi che non piacciono a qualcuno. Dubito però che i capi di stato prendano sul serio e procedano legalmente contro chi scrive sui social. Tranne in Turchia.

Sì, perché il centro comunicazioni al presidente, che rappresenta il presidente Erdoğan in persona, trasmette le “denunce” direttamente ai pubblici ministeri competenti e alla polizia. I quali poi fanno indagini serie e accurate sugli scritti, identificano immediatamente gli autori e li denunciano per “insulto al presidente”, “insulto all’identità turca”, “insulto allo stato” o “incitamento alla rivolta”, tutte accuse che violano la libertà di espressione e di pensiero. Molti, come chi scrive, subiscono condanne ad anni di carcere.

Ricordo che la Turchia da vent’anni è governata da una dittatura personale e da un regime politico islamista e ultranazionalistico.

Oltre alla linea diretta del presidente Erdoğan, c’è la polizia che “pattuglia” gli account di cittadini turchi. Che pattuglino può sembrare strano, ma il nome ufficiale di questa azione legale, portata avanti dalla polizia turca, è proprio “pattugliamento virtuale”. In altre parole, la polizia ha il compito di pattugliare i social. Si fa servizio di “pattugliamento” su Twitter o Facebook, si identifica chiunque critichi il presidente Erdoğan, lo stato o le istituzioni statali e si avviano indagini.

Al fine di legalizzare tutto ciò, il presidente e il suo governo hanno recentemente approvato un’apposita “Legge censoria”. Definita ufficialmente “Legge contro l’inquinamento dell’informazione”, la legge autorizza governo, giudici, pubblici ministeri e polizia a richiedere, anche in forma anonima, informazioni (metadata come l’indirizzo IP) sugli utenti a qualunque piattaforma (come Twitter o Facebook). Contro quelle piattaforme che si rifiutano di fornire alle autorità turche indirizzi IP e altre informazioni personali, lo stato agisce limitandone l’accessibilità nel territorio nazionale e imponendo sanzioni economiche come il divieto delle inserzioni pubblicitarie. Più di recente, in risposta alle proteste massicce su Twitter seguite al forte terremoto nella Turchia meridionale e nella Siria settentrionale, in cui secondo stime ufficiali sono morte 350 mila persone e altri 3 milioni e mezzo sono senza tetto, il governo di Erdoğan ha deciso di bloccare l’accesso a Twitter in tutto il paese, per molte ore i social sono rimasti accessibili solo con un VPN.

“Segnalare” un messaggio scomodo alle “pattuglie virtuali” è facile. Ai sostenitori del governo e ai nazionalisti che frequentano i social basta semplicemente marcare l’account sgradito direttamente sotto il messaggio, segnalandolo così alla polizia.

Le delazioni possono arrivare anche a centinaia di migliaia al giorno, soprattutto sotto le elezioni, in tempi di crisi economica o politica, o quando una calamità come un terremoto fa montare la rabbia popolare, con il risultato che polizia e pubbliche accuse non riescono a stare dietro a tutti i casi. Ed è qui che il panottico citato in apertura manifesta i suoi effetti. Perché in qualunque momento i dissidenti sono costretti a vivere nella paura che ogni loro messaggio su Twitter o Facebook possa essere segnalato alla polizia, alla magistratura o addirittura al dittatore Erdoğan in persona. Da notare poi che la legge censoria votata dal governo inasprisce le pene se l’utente scrive dietro uno pseudonimo, criminalizzando l’anonimato. Un giorno la polizia bussa alla porta e si viene convocati al comando o direttamente in tribunale semplicemente per qualche frase.

La Turchia è un carcere panottico con 80 milioni di detenuti, un carcere in cui gli intolleranti paranoici stanno al centro e i detenuti sono rinchiusi in celle trasparenti tutt’attorno.

E sperano nella libertà.

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