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Io, la Matita, una Rilettura

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Di Kevin Carson. Originale: I Pencil, Revisited, pubblicato l’undici luglio 2023. Traduzione italiana di Enrico Sanna.

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Introduzione

Non credo che esista testo libertario controverso più diffuso, più noto, o più amato, di I, Pencil: My Family Tree as told to Leonard E. Read. Comparso per la prima volta sul numero di dicembre 1958 di The Freeman, da allora viene distribuito in opuscolo dalla Foundation for Economic Education a generazioni di studenti delle superiori e alla popolazione in generale. Come testo di riferimento per questo saggio abbiamo preso proprio l’opuscolo della Foundation for Economic Education.1

Prendendo come esempio il processo produttivo di una semplice matita, il libretto cerca di dimostrare come l’azione di “milioni di minuscole conoscenze” coordinate dalla Mano Invisibile del mercato sia in grado di ottenere risultati superiori a uno “spirito organizzatore” governativo2. Il saggio cerca soprattutto di inculcare nel lettore l’importanza di una “fede nelle persone libere”, e quindi anche del sistema capitalista di cui la produzione di una matita simboleggia tale libertà.3 L’opuscolo è stato fortemente elogiato da eminenti libertari, come gli economisti Milton Friedman e Donald Boudreaux, ma anche da Lawrence F. Reed (attuale presidente emerito della FEE). Nella sua postfazione all’opuscolo pubblicato dalla FEE, Friedman loda il fatto che sia evidenziato il ruolo del prezzo di mercato come coordinatore delle conoscenze diffuse di milioni di attori del mercato, e riporta questa citazione presa dal suo programma televisivo “Free to Choose”:

Nessuna delle persone coinvolte nella produzione di una matita agisce perché gli occorre una matita. Alcuni una matita non l’hanno neanche vista mai e non sanno a cosa serve. Tutti quanti vedono nel proprio lavoro un modo per ottenere i beni e i servizi che gli occorrono…

Ciò che sorprende maggiormente è che la matita venga prodotta. Non c’è nessuno che dal suo ufficio centrale distribuisce ordini a migliaia di persone. Nessun poliziotto controlla che gli ordini siano eseguiti.4

Boudreaux, commentando la versione della Online Library of Liberty, nota sarcastico: “Chi si avvicina per la prima volta all’economia, dopo aver letto Io, la matita finisce per credere ingenuamente che si tratti di un saggio contro la pianificazione centrale e il bisogno di normative.”5

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Nella prefazione all’edizione della sua fondazione, Lawrence Reed osserva giustamente che “Le sono più convincenti quando sono veicolate da una storia avvincente.”6 A introdurre il principio fu soprattutto Ronald Reagan: un contaballe, come dicevano tanto i nemici quanto gli amici. Reagan riuscì a vendere il suo rivoluzionario programma neoliberale condendolo con storielle di disoccupati che col sussidio di disoccupazione giravano in Cadillac, o di abitanti delle baraccopoli che pagavano 113 dollari al mese per un appartamento di lusso, o ancora di fannulloni che compravano un’arancia e vodka con sussidi pubblici. Storielle semplici, convincenti… e false.

La stessa FEE, la Foundation for Economic Education, è nata dopo la seconda guerra mondiale nell’ambito di un’offensiva propagandistica finanziata da privati con l’obiettivo di convincere gli americani, con storie semplici e convincenti, che in America “sistema della libera impresa” è virtuoso; e per riportare le conquiste dei lavoratori e della sinistra a livelli bellici o ancora prima.

Tra i maggiori contribuenti troviamo l’Associazione Nazionale dei Produttori. Lo studioso di propaganda Alex Carey cita in proposito una tesina del 1946:

[U]sarono media di ogni genere per convincere la popolazione che la libera concorrenza era meglio della gestione burocratica. Il messaggio esplicito fu affidato a una serie di annunci pubblicitari a tutta pagina in oltre quattrocento quotidiani e duemila settimanali… Articoli sull’argomento furono pubblicati su riviste, periodici d’affari e d’informazione rurale. L’ufficio editoriale dell’associazione forniva un flusso continuo di dichiarazioni e risposte a 4.200 edizioni di riviste settimanali, 500 direttori di quotidiani cittadini e 2.700 direttori di riviste aziendali. “Brief for Broadcasters” forniva materiale a 700 presentatori radiofonici, mentre “Industry’s Views” canalizzava il credo dell’associazione in direzione di oltre 1.300 tra editorialisti e rubricisti.7

Tra il 1946 e il 1950, l’Associazione Nazionale dei Produttori distribuì più di 18 milioni di opuscoli, il 41 percento a lavoratori dipendenti, il 53 percento a studenti e il sei percento a organizzazioni ecclesiastiche e femminili.8

All’associazione si unì la camera di commercio nazionale con una campagna che si proponeva di “inondare il paese di propaganda contro comunisti, socialisti, sindacati e New Deal”. La strategia della camera di commercio prevedeva la distribuzione di milioni di copie di un opuscolo di una cinquantina di pagine.9 L’American Advertising Council avviò nel 1947 un programma da cento milioni di dollari che intendeva “sfruttare ogni mezzo per ‘vendere’ agli americani il sistema economico americano.”10

Dalla descrizione fatta da Daniel Bell capiamo che la propaganda rispecchiava “l’interesse primario dell’industria”

che nell’immediato dopoguerra voleva cambiare l’opinione diffusa generata dalla… depressione. La campagna sulla ‘libertà d’impresa’ serviva due scopi principali: riconquistare la fiducia del lavoratore che si rivolgeva ai sindacati e fermare il socialismo strisciante… In breve, si voleva smuovere la maggioranza democratica degli ultimi vent’anni riportandola in ambito repubblicano…

Come disse Belle, fu la “campagna ‘di vendita’ più martellante della storia industriale.”11

La Foundation for Economic Education (FEE), per quanto fossero poco espliciti i suoi legami con la NAM, la camera di commercio e altri, nacque nel 1946 come pensatoio finanziato dall’industria per fare l’apologia propagandistica di una mitica “libera impresa”. Per il fondatore Leonard Read l’incontro con William Clinton Mullendore della Southern California Edison Company fu un colpo di fulmine. La fede nella “libera impresa” di cui Mullendore era imbevuto non era un insieme astratto di principi sulla libertà d’impresa, ma una difesa degli interessi aziendali americani contro la minaccia rappresentata dagli “apostoli dell’odio”.12

Indicativo di come Read vedeva il “sistema della libera impresa” è il fatto che nel suo diario13 i sindacati appaiono quasi sempre in una luce negativa, come istituzioni coercitive e pseudo-governative che estorcono il denaro dei cittadini.14 Immagino che la vicenda sanguinosa della Dole Company nelle Hawaii non dovesse apparirgli poi così lontana dall’ideale degli “uomini liberi” che decidono spontaneamente da impedirgli di prendere il suo presidente come assistente esecutivo (in seguito, negli anni Sessanta, Herbert Cornuelle salì al vertice della United Fruit Company, altro campione di libertà).

La FEE nacque grazie anche a grosse donazioni di aziende come Con Ed, U.S. Steel, GM e Chrysler.15

L’organizzazione libertaria di maggior successo del dopoguerra, la FEE, prendeva il posto di una costellazione di piccole organizzazioni contro il New Deal. I ricchi finanziamenti venivano da sostenitori come Chrysler, General Motors, Monsanto, Montgomery Ward e U.S. Steel. La più cospicua donazione singola veniva dal Volker Fund.16

Al momento della nascita della FEE, Read era già stato direttore generale della camera di commercio di Los Angeles. Della FEE Read assunse la carica di presidente, affiancato da David Goodrich, già amministratore di B.F. Goodrich. Molti dei sedici amministratori venivano dal mondo industriale: H.W. Luhnow, presidente della William Volker & Company; A.C. Mattei, presidente della Honolulu Oil Corporation; Charles White, presidente della Republic Steel Corporations; Donaldson Brown, ex vicepresidente della General Motors; Jasper Crane, ex vicepresidente della Du Pont; B. E. Hutchinson, presidente del comitato finanziario della Chrysler Corporation; e infine il suo amico W.C. Mullendore, presidente della Southern California Edison Company.17 Herbert Cornuelle, della Dole Company, era consigliere del presidente.18

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Io, la matita è scritto in modo semplice e convincente. Ma dice la verità? A differenza degli aneddoti di Reagan, a prima vista sembrano esserci pochi errori o falsità. Certo tutti i dati riguardanti le fonti dei componenti possono facilmente essere falsificati. Pertanto non resta che vedere se, visti nel contesto, i fatti citati confermano i risultati citati da Read; o se invece sono, come dice l’avvocato Lionel Hutz dei Simpson, “veri nel senso migliore: tecnicamente veri”. Ci chiediamo soprattutto quanto l’espressione “persone libere”, detto nel linguaggio fiorito di Read, tenga conto dei rapporti di lavoro e della proprietà delle risorse nei vari passi che conducono alla produzione di una matita.

Vediamolo in particolare.

Le Fasi Produttive

Apprendiamo dall’edizione della Online Library of Liberty che Io, la matita descrive gli stadi produttivi di una Mongol 482 della Eberhard Faber Pencil Company.

Read nell’opuscolo non approfondisce la storia della Eberhard Faber. Gli aneddoti citati riflettono le condizioni di quel tempo, parliamo presumibilmente del 1958, non molto prima. Uno sguardo attento alla storia può fornire particolari illuminanti.

Da Wikipedia apprendiamo che la Eberhard Faber nasce nel 1861 a Manhattan ad opera di John Eberhard Faber.19

“Il mio albero genealogico,” spiega la matita personificata, “comincia, per l’appunto, con un albero, un cedro con una bella venatura diritta, di quelli che crescono nella California del Nord e in Oregon.”20 E in effetti, la fabbrica produceva in origine matite di cedro, cedro rosso orientale, per essere precisi, ma non della California. Il legno veniva da una segheria della Faber situata dalle parti di Cedar Key, in Florida.21 Non so quando la società cominciò a rifornirsi di cedro dall’ovest, o se per qualche tempo usò legno proveniente sia dalla Florida che dalla West Coast. Probabilmente, cominciò ad utilizzare risorse provenienti dagli stati occidentali al più tardi nel 1896, visto che in quell’anno la segheria della Florida andò distrutta in un incendio.22

L’opuscolo non spiega quali erano i veri fornitori di legno di cedro della Faber sulla West Coast, se si trattava di una consociata della Faber o altro; in ogni caso, non dice neanche come furono acquisiti i boschi di cedro. Leggo però sulla pagina dedicata su LinkedIn, che la CalCedar (California Cedar Products Company, fondata nel 1917 con sede a Stockton) è “il principale fornitore mondiale di listelli per matita” per “aziende di tutto il mondo”. Credo dunque che possa esser presa come esempio tipico di industria del cedro fornitrice dei produttori di matite.23

Riguardo l’acquisizione dei boschi di cedro da parte della CalCedar, il sito Reference for Business dice solo che Charles Berolzheimer, pronipote del fondatore,

iniziò per conto proprio la produzione di matite nel 1927 nella California occidentale, dove comprò una giovane ditta, la California Cedar Products Company, che sfruttava la disponibilità di cedri dell’incenso delle foreste californiane e dell’Oregon per produrre pannelli e listelli per matite.24

Questa “disponibilità” di cedri lascia intuire alcune cose: dietro questo termine, così subdolo, si nasconde probabilmente tutta una storia interessante (e molto meno edificante di quella raccontata da Read) su come i cedri diventarono una risorsa disponibile. La California, come dovrebbe sapere chiunque abbia studiato la storia americana, era stata acquisita con la guerra dagli Stati Uniti appena dodici anni prima della nascita della fabbrica di matite di Eberhard Faber: per questo non solo il cedro, ma anche il legname di tante altre varietà, e poi risorse minerali e pascoli, tutto quanto diventò “disponibile”, ad uso dell’industria statunitense del legname, delle miniere e dell’allevamento, che infatti sciamarono ad ovest per accaparrarsi il bottino della guerra messico-statunitense.

La storia della California fornisce il paradigma storico di tutto l’ovest del paese: gran parte delle terre che il Messico aveva acquisito dal tesoro della corona spagnola, diventarono proprietà pubblica degli Stati Uniti. Il resto è come in un film di Billy Jack. Il dipartimento degli interni e l’ufficio per la gestione del territorio erano, parafrasando una battuta sullo stato canadese, un pugno di società minerarie e del legno in giacca e cravatta. Decine di migliaia di chilometri quadri di foreste e risorse minerarie furono distribuite a queste società in quella che, parafrasando Vernon Parrington, possiamo definire una festa di corte. Altre centinaia di migliaia di chilometri quadrati andarono ufficialmente al demanio, per essere concesse in affitto, soprattutto a industrie minerarie e del legname, al più simbolico dei prezzi.

Quanto fosse spontanea e pacifica l’acquisizione del cedro con cui si fabbricava la logorroica matita di Read potrebbero dirlo i pochi indigeni Yokut rimasti, sul cui territorio rubato sorge oggi la città chiamata “Stockton”. Un indizio rivelatore: nel 1851, il governatore Pete Burnett chiese che le popolazioni native fossero spostate ad est della Sierra; altrimenti, ammonì, “ci sarà una guerra di sterminio che durerà finché la razza indiana non si sarà estinta.”25

A prescindere dall’impresa che ne aveva il diritto di sfruttamento, la foresta di sequoie era, come nota John Quiggins, molto probabilmente “gestita dal servizio forestale degli Stati Uniti o dall’ufficio per la gestione del territorio o da qualche altra istituzione statale simile.”

Perché? Perché già alla fine dell’Ottocento, il governo degli Stati Uniti (significativamente con Theodore Roosevelt) pensava che la proprietà privata e l’operato della mano invisibile non sarebbero probabilmente riuscite a garantire a lungo una gestione adeguata delle foreste per produrre, tra le altre cose, matite. Giudizi simili venivano anche dall’Australia e da tanti altri paesi. Insomma, la produzione delle matite negli Stati Uniti degli anni Cinquanta dipendeva perlopiù da un’attenta pianificazione iniziata cinquant’anni prima.

È ingenuo pensare che la gestione pubblica delle foreste sia guidata da una qualche nozione astratta di bene comune. C’è tutta una serie di parti interessate (industrie del legname, immobiliari, ambientali eccetera) che con maggiore o minore efficacia cercano di imporre la propria opinione sulla gestione del bosco, e talvolta riescono anche a catturare le istituzioni governative teoricamente preposte a scrivere le regole.26

È, in sostanza, come capita spesso, lo stato capitalista che gestisce l’economia per conto dell’industria capitalista. Un libertario di destra potrebbe ribattere che una piccola azienda è costretta a reperire le materie prime dai fornitori disponibili, che questi siano soggetti o meno a uno stato malvagio e bulimico. Ma è da notare che non si tratta (come purtroppo fa credere Quiggin) di istituzioni “catturate” da “istituzioni governative che hanno il compito di imporre le norme.” In realtà, come spiega Kolko in The Triumph of Conservatism, gran parte delle norme emanate durante l’Era Progressista andavano a vantaggio delle industrie a cui quelle norme erano rivolte. Quanto agli obiettivi dello stato capitalista, Kolko parla di “capitalismo politico”:

Per capitalismo politico intendo gestione degli strumenti politici che servono a garantire stabilità, predicibilità e sicurezza (ovvero razionalità) all’economia. Stabilità significa eliminare le lotte concorrenziali e le fluttuazioni incontrollate dell’economia. Predicibilità significa capacità di pianificare, con mezzi sicuri e politicamente stabilizzati, le azioni future sulla base di aspettative facilmente calcolabili. Per sicurezza intendo protezione da attacchi politici insiti in qualunque struttura politica formalmente democratica. Per razionalità, infine, non intendo, come si fa solitamente, una migliore efficienza della produzione o dell’organizzazione interna di un’impresa. Intendo invece organizzare l’economia, e delle più ampie sfere politica e sociale, al fine di far sì che le imprese possano operare predittivamente in un ambiente sicuro che permetta loro di ottenere ragionevoli profitti nel lungo termine.27

Dire che le grandi imprese sono altra cosa rispetto allo stato, o che di questo sono le vittime, è come dire che il feudatario era estraneo alla politica medievale.

E una delle funzioni principali dello stato capitalista consiste nel sostenere gli input dell’industria capitalista, soprattutto garantendo che le risorse naturali sia abbondanti e a costo artificialmente basso grazie alle appropriazioni coloniali sia in terra americana, con gli insediamenti, che, altrove, con le colonie.

Read prosegue:

Diciamo che i tronchi vengono spediti allo stabilimento di San Leandro, California. Riuscite a immaginare le persone che hanno prodotto i vagoni, i binari e i locomotori e hanno costruito e installato i sistemi di comunicazione necessari alle ferrovie? Quest’esercito di persone sta tutto nel mio albero genealogico…

Né vanno dimenticati gli avi vicini e lontani che hanno aiutato a trasportare sessanta vagoni di asticelle attraverso il paese.28

Chi è che non sa che le ferrovie sono un prodotto esemplare della Mano Invisibile? Cito ancora Quiggin: “L’opuscolo di Read non dice di quale compagnia si trattasse, ma immagino che fosse la Union Pacific Railroad, nata con una legge del Congresso sotto la presidenza di Abraham Lincoln con l’intenzione di costruire una linea che attraversasse tutto il paese.”29 Quiggin, nel suo commento a Io, la matita, non dice di preciso quale linea fosse di preciso, ma non è importante. L’intervento dello stato fu decisivo per la nascita di tutta l’infrastruttura ferroviaria nazionale.

Le ferrovie, spiega Albert Jay Nock, non “rispondevano ad una necessità economica tranne in rari casi. Erano attività speculative rese possibili dallo stato che lottizzava gli strumenti politici tramite concessioni fondiarie e aiuti economici…”30

Le concessioni fondiarie federali, spiega Matthew Josephson, trasformarono le compagnie ferroviarie in imprese immobiliari. Nei dieci anni precedenti il 1861, “le ferrovie, soprattutto quelle dell’ovest, erano ‘imprese immobiliari’ che avevano acquisito la loro merce principale grazie a concessioni fondiarie ottenute in cambio della promessa di costruire; i dirigenti… fecero una montagna di soldi con terre coltivabili e edificabili vendute a prezzi sempre più alti.” In seguito al progetto di legge “Pacific Railroad”, ad esempio, la Union Pacific (che costruiva ad ovest del Mississippi) ebbe 4,86 milioni di ettari di terra e buoni di stato trentennali per un totale di 27 milioni di dollari. La Central Pacific (che costruiva dalla costa occidentale verso est) ricevette 3,6 milioni di ettari e 24 milioni in buoni di stato.31

È proprio un’eminenza libertaria di destra, Murray Rothbard, a spiegare che le concessioni fondiarie comprendevano, oltre allo spazio della linea ferroviaria vera e propria, anche una fascia di “24 chilometri su entrambi i lati della linea.” Affinché, una volta completate le linee, le compagnie potessero incassare vendendo a prezzi astronomici terreni nel frattempo diventati appetibili. Furono le compagnie ferroviarie a vendere ogni pezzo di terreno su cui poi sorgevano case e attività delle nuove città. Le concessioni comprendevano anche boschi da cui ricavare legname di alto valore.32

Vediamo in particolare cosa ruotava attorno alle obbligazioni ferroviarie di cui parla Josephson. Theodore Judah, direttore tecnico di quella che sarebbe diventata la Central Pacific, era dell’opinione che “un progetto è fattibile purché si ottengano aiuti dallo stato.” Uno dei principali sostenitori del progetto, Colis Huntington, riuscì ad ottenere finanziamenti convincendo con l’inganno le amministrazioni locali (tra cui Stockton, Sacramento e San Francisco) ad emettere obbligazioni (“da 150.000 a un 1.000.000 di dollari”) minacciando, in caso contrario, di far passare altrove la ferrovia.33

Secondo Michael Piore e Charles Sabel, senza quei grossi finanziamenti sarebbe stato molto difficile costruire una rete ferroviaria così estesa e in così poco tempo. Il capitale iniziale necessario ad assicurare i diritti di passaggio, fare le tracce e posare i binari sarebbe stato esorbitante.34 Il governo federale fornì aiuto anche abbattendo i costi contrattuali con la revisione delle leggi sugli obblighi legali, arrivando spesso ad esentare le compagnie da responsabilità in caso di danni causati dai lavori.35

Spiega Lewis Mumford che senza tutti quegli aiuti di stato il sistema ferroviario avrebbe avuto un’estensione molto più limitata e sarebbe stato meno centralizzato: ci sarebbe probabilmente stata una moltitudine di sistemi ferroviari regionali in funzione di altrettante aree industriali regionali e locali, magari variamente connesse tra loro da poche linee di dimensione nazionale.36

Oltre ai già citati aiuti economici, lo stato federale interveniva costantemente anche per disciplinare i lavoratori del settore e garantire così il funzionamento regolare. Il presidente Grover Cleveland, ad esempio, nel 1896 mandò l’esercito federale a soffocare lo sciopero contro la Pullman. Con la legge sui lavoratori ferroviari del 1926, inoltre, il governo federale acquisì il potere di imporre ai sindacati mediazioni e contratti vincolanti, costringendo i lavoratori ad accettare le condizioni definite dal governo al fine di evitare gli scioperi.

Le sovvenzioni e il protezionismo di stato verso l’industria ferroviaria sono un esempio lampante del ruolo dello stato nel sovvenzionare i trasporti, riducendo artificialmente i costi di trasporto delle merci e contribuendo a ingrandire imprese già grandi affinché servano aree di mercato ancora più grandi rese artificialmente profittevoli. Così Noam Chomsky:

Tutti sanno che il commercio è fortemente sovvenzionato, il che crea forti distorsioni del mercato… Il trasporto in tutte le forme gode di sovvenzioni… Il costo dei trasporti, che sono un requisito inevitabile, rientrano nel calcolo dell’efficienza del commercio. Si tratta però di costi distorti, ridotti artificialmente grazie a forti sovvenzioni che tagliano il costo dell’energia e attivano fattori distorsivi di ogni genere.37

Tra chi ha contribuito a rendere possibile la matita, continua Read, ci sono anche “gli uomini che versarono il calcestruzzo per realizzare la diga della centrale idroelettrica della Pacific Gas & Electric Company che fornisce energia agli impianti.”38

Non possiamo andare nel dettaglio, Read non specifica quale diga fornisce l’energia a questi impianti. Ma è perlomeno strano che, in un saggio che vanta l’azione spontanea di “uomini e donne liberi”, si parli di operai che gettano il calcestruzzo per una diga senza citare gli espropri e il genio militare.

Nella crescita dell’economia americana, ferrovie e centrali idroelettriche occupano una posizione importante in quanto “miglioramenti interni” a spese dello stato. Trasporti e infrastrutture industriali rientrano in un fenomeno più ampio di cui si serve lo stato capitalista per socializzare gran parte dei costi di produzione dell’industria “privata”. James O’Connor, nel suo The Fiscal Crisis of the State, chiama questi costi “investimenti sociali”, riferendosi alle “spese necessarie a rendere proficua l’accumulazione privata”; si tratta in particolare di “progetti e servizi che aumentano la produttività di una certa quantità di forza lavoro e quindi, mantenendo inalterati gli altri fattori, aumentano il tasso di profitto.”39 Gran parte dei costi sono pertanto scaricati sul contribuente, favorendo così la crescita artificiale del profitto del capitale. Col tempo, una parte sempre più grossa dei costi aziendali deve essere socializzata al fine di mantenere il profitto.

La crescita del settore monopolistico dipende sicuramente dall’espansione continua degli investimenti e del consumo sociale, che in parte o in tutto aumentano indirettamente la produttività nell’ottica del capitale monopolistico. In sostanza, il capitale monopolistico socializza sempre più i costi di produzione.40

Tornando ai “4 milioni di dollari di attrezzature ed edifici” della fabbrica di matite, Read butta giù quasi con noncuranza una delle affermazioni più discutibili, e cioè che è “tutto capitale accumulato da progenitori parsimoniosi e avveduti…”41

L’idea che gli “investitori” in qualche modo “contribuiscano” alla produzione “fornendo il capitale” è uno dei luoghi comuni più diffusi, se non il più diffuso, dell’apologetica capitalista.

Potrebbe essere così in un mondo in cui è il denaro a produrre le macchine, i lavoratori possono vivere con il denaro e il denaro stesso può essere usato come materia prima per la lavorazione di beni industriali. Ma nel mondo reale le macchine sono fatte da lavoratori utilizzando materie prime naturali. Queste macchine, a loro volta, lavorano altre materie prime, prese dalla natura da altri lavoratori. E i mezzi di sussistenza dei lavoratori del comparto produttivo vengono da altri lavoratori ancora che lavorano altre materie prime sempre di provenienza naturale. Tutto ciò che l’uomo consuma è prodotto dall’uomo stesso che modifica la natura.

Il capitalista non accumula scorte né offre “fondi per i lavoratori”. Se si ferma la produzione, le scorte di cibo si esauriscono in pochi giorni. I lavoratori mangiano gli alimenti prodotti quasi istantaneamente da altri lavoratori, mentre le materie prime necessarie alla produzione vengono da altri lavoratori ancora.

Il capitalista di suo non mette neanche una vite. Non è altro che il lavoro dell’uomo applicato alla natura, dall’inizio alla fine: il prodotto finale e il bene capitale occorrente alla sua produzione. In termini puramente fisici, l’economia è costituita da gruppi di lavoratori che si anticipano l’un l’altro il materiale produttivo.

Il cosiddetto “capitale”, ovvero il capitale pecuniario, non è che un insieme di pretese, socialmente fabbricate, sul diritto di controllare e dirigere questo materiale produttivo. Un diritto la cui legittimità non regge ad un’analisi. Diceva l’inglese Thomas Hodgskin, ad un tempo liberale classico di libero mercato e socialista, che le cosiddette “riserve” di beni di sussistenza e di materiali di produzione, ovvero il “capitale circolante” teorizzato dagli economisti del tempo, non sono altro che il frutto di un “lavoro concomitante”.

Tra chi produce alimenti e chi produce vestiti, tra chi fabbrica strumenti di lavoro e chi li usa si insinua il capitalista, che non fa e non usa niente di tutto ciò ma si appropria di ciò che viene prodotto dalle altre parti. Con mano avarissima, trasferisce ad una parte ciò che produce l’altra, tenendo per sé la parte più grossa. Pian piano si incunea tra loro, cresce alimentato dai lavoratori sempre più produttivi, lavoratori che egli divide e allontana l’uno dall’altro finché nessuno di loro sa più chi ha prodotto ciò che riceve dalle mani del capitalista. Mentre li depreda, il capitalista li tiene l’uno all’oscuro dell’altro, così che ognuno crede di dovere la propria esistenza al capitalista. È lui che intrallazza per tutti i lavoratori; se mettiamo a confronto ciò che produce un operaio qualificato inglese con ciò che produce un lavoratore non qualificato irlandese, vediamo che l’intrallazzatore inglese non ha niente da apprendere dal suo omologo irlandese. È solo più fortunato, è acclamato come benefattore, mentre l’irlandese è condannato come oppressore. Egli non solo si appropria di ciò che produce il lavoratore, ma riesce anche a farsi passare per benefattore che offre un lavoro.42

A ben vedere, non regge neanche la teoria secondo cui il capitale dev’essere premiato per il suo “contributo” alla produzione. Secondo la teoria della “produttività marginale” di John Bates Clark, il “contributo” del capitale alla produttività è ciò che viene aggiunto al valore di un bene finito. Ma se guardiamo bene, si tratta di un ragionamento circolare. Dire che la produttività marginale del capitale, o di un qualunque altro “fattore”, è ciò che fa crescere il valore di scambio del bene prodotto, è come dire che il “contributo” per cui il capitale dovrebbe essere “premiato” è il prezzo che il padrone riesce a far pagare in cambio dei suoi “servizi”. Dunque il concetto di produttività marginale semplicemente presuppone, o dà per scontata, la legittimità dell’inquadramento istituzionale, qualunque esso sia, che governa il controllo dei fattori di produzione. Chiunque sia proprietario di questi fattori, o anche soltanto abbia il diritto di produrli o non impedisce ad altri di farlo, ha il diritto di farsi pagare per il suo contributo (o per non aver impedito ad altri di fare altrettanto). Questo atteggiamento neutro nei confronti del quadro istituzionale che controlla l’accesso alle risorse produttive non è una falla del marginalismo ma la sua caratteristica principale in quanto programma ideologico: economisti istituzionali come Thorstein Veblen e John R. Commons hanno analizzato a fondo questa cecità istituzionale del marginalismo.

Sullo stesso piano troviamo la teoria delle preferenze temporali di Eugen von Böhm-Bawerk. Che, nonostante le sue proteste, è sostanzialmente una versione rimessa a nuovo della vecchia giustificazione del profitto visto come un premio per aver “aiutato” o “non impedito”. L’idea alla base è che, data l’alta preferenza temporale del lavoratore (i soldi gli servono subito, mentre la produzione è in corso, perché deve mangiare) e la più bassa preferenza temporale del capitalista (è disposto ad aspettare fino al realizzo dell’investimento), il lavoratore attribuisce al poco denaro che può ottenere oggi quel valore che il capitalista attribuisce a una cifra più grossa ottenibile domani. Il che è un altro ragionamento circolare, come la produttività marginale: in altre parole, più sei disperatamente alla ricerca dei soldi subito e più sei disposto a prendere meno. Preferenza temporale alta e bassa sono un altro modo per dire potere contrattuale debole e forte, un concetto indifferente al quadro istituzionale che sta dietro il diverso potere contrattuale.

Produttività marginale e preferenza temporale non smentiscono le teorie radicali sull’estrazione di plusvalore, più semplicemente si limitano a nascondere quest’ultima dietro la finzione di una “obiettiva” legge della distribuzione, nascondendo le vere relazioni di potere.43

Ciò che rimane è il dogma secondo cui al capitalista spetta un premio per il suo “contributo”, che consiste nel gestire la contabilità e il credito che coordinano i flussi reciproci di produzione tra i diversi gruppi di lavoratori. Ma come ha fatto il capitalista a guadagnare questa posizione? In breve: 1) perché, come classe, ha accumulato ricchezza in precedenti razzie (esproprio dei beni comuni, conquiste coloniali e schiavitù) e usa tale ricchezza per estrarre altra ricchezza con la rendita (ad esempio, il latifondo e la proprietà intellettuale); 2) perché le funzioni creditizie e monetarie sono appannaggio esclusivo di chi ha accumulato ricchezza.44 Per farla breve, alla nascita di quel sistema celebrato da Read in cui “uomini e donne liberamente” facevano scambi spontanei ha contribuito molta violenza, a cui si aggiunge la violenza occulta necessaria a mantenere le condizioni che permettono questo agire “spontaneo” secondo le necessità del capitale.

Tornando alla storia della matita, Read, che scriveva durante la decolonizzazione postbellica, cita con noncuranza, come fonte di varie risorse occorrenti alla produzione delle varie parti, molti dei paesi appena usciti dall’esperienza coloniale: la grafite viene dallo Sri Lanka,45 il gommino dall’Indonesia46 e così via. Questi paesi, la cui economia sotto il dominio coloniale si basava sull’esportazione di materie prime e il consumo di beni dell’Occidente industrializzato, dopo l’indipendenza sono rimaste prigioniere di un sistema neocoloniale di divisione del lavoro, per cui hanno continuato a fornire materie prime a termini svantaggiosi imposti dai paesi industrializzati.

Anche la grafite è l’esito di un processo complesso. il minerale viene estratto nello Sri Lanka. Pensate ai minatori e a chi ha fabbricato i tanti utensili di cui fanno uso, e i sacchi di carta in cui la grafite viene impacchettata e trasportata, e ancora a quanti hanno prodotto le corde usate per legare i sacchi e a chi li carica sulle navi e a chi ancora quelle navi le ha costruite. Anche il guardiano del faro lungo la rotta ha contribuito alla mia nascita – e così pure il timoniere del rimorchiatore.47

Lo Sri Lanka, colonia britannica fino al 1948 col nome di Ceylon, forniva la grafite per le mine. Sotto il governo britannico, l’economia dello Sri Lanka era caratterizzata da enormi piantagioni finalizzate all’esportazione (in particolare di gomma e tè), con l’importazione di braccianti tamil dall’India.48 Le miniere di grafite, che nell’Ottocento erano di proprietà britannica, passarono nelle mani di un’élite indigena cooptata dai britannici.49 Possiamo farci un’idea dei rapporti tra la corona britannica, i padroni britannici, l’élite indigena e la popolazione locale leggendo questo dossier di Scientific American del 1910:

Dopo l’enorme richiesta di grafite, conseguenza della guerra in Sudafrica, quando si arrivò a 315 dollari la tonnellata, tra gli indigeni scoppiò la febbre del guadagno. Le quotazioni incentivarono il lavoro di tante persone e l’estrazione illegale in terre che appartenevano alla corona. L’estrazione illegale è pratica diffusa ancora oggi. Se si scopre una vena in una proprietà dello stato, le autorità rilasciano debitamente il diritto di sfruttamento a persone rispettabili. La popolazione del posto, per contro, devono fare tutto di frodo.

…Anche l’industria è perlopiù nelle mani degli indigeni, molti dei quali hanno accumulato grandi fortune grazie al basso costo della manodopera locale, che è abbondante… e assicura un ottimo profitto.50

Non c’è bisogno di spiegare perché era “abbondante” la manodopera locale a basso costo.

Tra i casi esemplari di quel genere di “persona rispettabile” delle élite indigene a cui le autorità britanniche rilasciavano i permessi citiamo Don Charles Gemoris Attygalle (morto nel 1901), che acquistò dai britannici la miniera di Kahatagaha.51 Sotto i britannici, l’industria mineraria era dominata da un’oligarchia di famiglie “rispettabili”, che continuò ad operare per qualche tempo anche dopo l’indipendenza. Lo storico Michael Roberts spiega come questa élite vedeva se stessa in rapporto alla maggior parte della popolazione:

L’esistenza di una categoria di singalesi “altolocati” distinta dalle masse non è un prodotto della storiografia recente. Era un fatto riconosciuto già tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Si trattava di singalesi “altolocati” dotati di grande potere e posizione sociale, che vedevano se stessi come gruppo sociale distinto. Facevano petizioni dichiarando, con frasari elaborati, di rappresentare l’opinione delle “rispettabili classi dirigenti” della società indigena. Parlavano di incontri con “influenti e rispettabili persone del posto” o con “una rappresentanza di membri influenti delle diverse comunità”. Alcuni all’interno di questa élite si vantavano di essere “discendenti delle famiglie più illustri” o “importanti esponenti” di qualche casta o gruppo etnico. Nei loro scritti abbondavano aggettivi come “illustre”, “importante”, “affermato”. Quando, nel 1908, James Peiris chiese di introdurre una rappresentanza singalese nel Consiglio Legislativo, parlò di un elettorato già esistente “di grande intelligenza, composto da membri del Servizio del Governo, uomini professionisti, laureati, proprietari terrieri e mercanti di ogni genere, a cui potremmo affidare tranquillamente il compito di eleggere rappresentanti nel Consiglio”. Insomma, “i più intelligenti e i più influenti tra gli abitanti”.52

Queste élite coloniali nacquero perlopiù come dirigenti e sovrintendenti dell’industria coloniale al servizio dei bisogni economici dell’Impero Britannico.53 Il “gruppo ristretto di famiglie” che “accumulò grandi ricchezze con l’estrazione e l’esportazione della grafite tra gli anni 1860 e 1910”54 era formato perlopiù da ex sovrintendenti e capicantiere.55 Istruite come supervisori del processo estrattivo al servizio dell’economia capitalista globale, queste importanti famiglie si ritrovarono dopo l’indipendenza a sovrintendere il processo che avrebbe portato le economie delle esportazioni ad integrarsi nel sistema globale postbellico.

Il mio pezzo di metallo – la ghiera – è d’ottone. Pensate a quante persone estraggono zinco e rame, e a quelle che sono capaci a ricavare lucidi fogli d’ottone da queste risorse naturali. Quegli anelli scuri sulla ghiera sono nickel nero. Cos’è il nickel nero e come viene applicato? Ci vorrebbero pagine per spiegare solo perché il centro della ghiera non è ricoperto di nickel nero.56

Read non dice da dove proviene il rame. Nel 2013, sei delle prime dieci principali miniere al mondo erano in Cile, che produceva il 27% del rame mondiale. Le altre quattro in Peru, Messico e Indonesia. Il Peru è il secondo produttore con una quota del 10%.57

Per farsi un’idea del panorama delle risorse naturali cilene occorre prima fare una piccola digressione. Alla fine dell’Ottocento si scatenò la caccia al salnitro andino, che aggiunto al guano serviva a produrre fertilizzante. Nel 1875 80.000 lavoratori cinesi lavoravano pressoché in schiavitù nelle miniere di nitrato. Poiché i profitti andavano tutti alla plutocrazia, mentre lo stato accumulava debiti, quest’ultimo nel 1875 nazionalizzò le miniere. Nel 1879, la Bolivia aumentò le tasse sul nitrato esportato da intermediari cileni. Il Cile pertanto, “con l’appoggio di investitori britannici”, dichiarò guerra alla Bolivia e al suo alleato, il Perù.

Grazie alle più moderne navi britanniche e a un esercito addestrato in Francia, il Cile riuscì in poco tempo a conquistare permanentemente le province di Atacama in Bolivia e Tarapacà in Perù. Se prima della guerra il Cile aveva pochissimi giacimenti di nitrato e depositi di guano, alla fine del 1883 aveva conquistato tutti i giacimenti di nitrato in Bolivia e Perù e gran parte dei depositi costieri di guano in Perù. Se prima della guerra, i britannici controllavano il 13 percento dell’industria del nitrato della provincia di Tarapacà in Perù, dopo la guerra, dati i possedimenti cileni nell’area, la quota britannica salì al 34 percento, fino ad arrivare al 70 percento nel 1890.

James G. Blaine, ex segretario di stato americano, definì la guerra, conosciuta come Guerra del Pacifico, “la guerra degli inglesi contro il Perù”, la guerra per il salnitro “in cui il Cile aveva una funzione strumentale”.58 Oltre ai giacimenti di salnitro, il Cile, appoggiato dalla Gran Bretagna, acquisì anche i principali giacimenti di rame (compresa quella che oggi è la più grande miniera di rame a cielo aperto del mondo a Chiquicamata), dando vita alla grande industria mineraria cuprifera cilena.59

Tra gli anni Sessanta dell’Ottocento e la Prima Guerra Mondiale agli investitori britannici dell’industria del rame succedettero gradualmente gli americani, che arrivarono all’86 percento del totale degli investimenti.60 Mentre Read scriveva l’opuscolo, due delle tre principali miniere di rame cilene erano di proprietà della statunitense Anaconda Copper Company, mentre la terza apparteneva alla Kennecott Copper Corporation, ugualmente statunitense.61 Il rame era la materia prima industriale più esportata dal Cile; in una relazione del 1969, Kissinger notava che “Tre quarti del rame cileno provenivano dalle sussidiarie della Anaconda e della Kennecott.”62

In Cile, dopo la Seconda Guerra Mondiale l’occasione per portare l’industria del rame sotto un più stretto controllo statale fu il controllo dei prezzi imposto negli Stati Uniti durante la guerra, che ne limitava il prezzo a 12 centesimi la libbra.63 A giustificazione dell’esproprio delle miniere di rame, di proprietà statunitense, il presidente cileno Salvador Allende disse che il modello di profitto applicato andava contro gli interessi dei cileni: nel periodo 1955-1970 il profitto arrivava a 774 milioni di dollari, ben oltre il normale tasso di profitto globale, più del valore contabile delle società.64

Per gran parte del periodo postbellico, l’obiettivo principale della politica estera statunitense nei confronti del Cile riguardava, e non a caso, la protezione dello sfruttamento dei giacimenti di rame. La reazione allarmata degli Stati Uniti alla sconfitta di misura di Salvador Allende nel 1958 inaugurò un quindicennio di interventi statunitensi nella politica cilena. Fino a cento operativi del dipartimento di stato e della Cia fornirono aiuti in segreto al candidato cristiano democratico Eduardo Frei; la Cia spese per l’operazione venti milioni di dollari di allora, più delle spese elettorali combinate di Johnson e Goldwater. Gran parte dei soldi andò via in “disinformazione” e “propaganda nera” (finta propaganda attribuita alla parte che si vuole screditare, ndt).”65 Il risultato fu la vittoria netta di Frei.66

Nonostante tutti gli sforzi degli Stati Uniti, Allende si prese la rivalsa e vinse le elezioni nel 1970. Un rapporto scritto dalla Cia all’indomani della vittoria spiegava che non era a rischio nessun “interesse vitale degli Stati Uniti”, né esisteva il rischio di uno sbilanciamento del potere militare tra le superpotenze, ma gli Stati Uniti avrebbero subito “forti perdite economiche”. Quest’ultima probabilmente si riferiva alle dichiarazioni pubbliche di Allende riguardo una possibile nazionalizzazione senza compensazioni dell’industria del rame.67

È nota a molti la campagna americana finalizzata alla detronizzazione di Allende, con il sovvertimento delle forze armate e il sabotaggio dell’economia cilena. Da una frase del consigliere per la sicurezza nazionale Henry Kissinger si intuisce il tono della politica americana di allora: “Non capisco perché dobbiamo star qui a guardare un paese diventare comunista per l’irresponsabilità del suo popolo.”68 Similmente, l’ambasciatore statunitense Edward Korry disse minacciosamente: “Finché governa Allende, in Cile non lasceremo arrivare neanche un bullone o una vite.”69

Una volta al potere, Pinochet lasciò la proprietà statale dell’industria del rame, ma compensò le società straniere pagando il prezzo pieno di mercato.

Torniamo a Read:

Infine c’è la mia corona, che nel mestiere viene detta comunemente “gommino”, la parte che le persone usano per cancellare gli errori fatti utilizzandomi. Un ingrediente chiamato “fatturato” è ciò che consente di cancellare. È un prodotto simile alla gomma, creato dalla reazione di olio di ravizzone, prodotto in India, e di cloruro di zolfo.70

È significativo il fatto che Read nel 1958 chiamasse “India” l’Indonesia. A quei tempi, l’Indonesia era indipendente dall’Olanda da nove anni prima, ma è presumibile che Eberhard Faber avesse cominciato a sfruttare l’olio di ravizzone sotto il dominio olandese.

In uno scritto della metà degli anni Quaranta, B.J. Widick descrive così l’ordinamento sociale delle Indie Orientali Olandesi:

Nelle Indie Olandesi tutto è diviso in due categorie: europeo e indigeno. Ci sono tribunali europei per gli europei (i bianchi) e una “giustizia” indigena per la popolazione locale. La coltivazione dei due milioni di ettari di terra fertile è parimenti divisa in due. Coltivare le piantagioni per profitto è un diritto riservato perlopiù agli europei e a una manciata di aristocratici accuratamente coccolati dal governo.

Agli indigeni è garantito il diritto di lavorare la terra per ricavarne sussistenza. Le terre migliori sono ovviamente proprietà del governo olandese, che le dà in comodato ai capitalisti per un periodo di 75 anni. La dinastia dei Dupont, ad esempio, possiede 53 mila ettari circa di piantagioni di alberi della gomma valutate 18 milioni di dollari, che nell’ultimo decennio hanno reso 40 milioni di dollari di profitti. La Goodyear Tire & Rubber Co. possiede tenute di dimensioni simili. L’esportazione è monopolio degli “stranieri”, mentre il commercio al dettaglio è affidato agli indonesiani. Separare chi fa profitti da chi suda è uno dei tanti modi di dividere la società delle Indie Orientali.

Era in particolare l’industria della gomma a importare lavoratori cinesi e indiani, che morivano a migliaia.71

Pur non essendo il gommino fatto di gomma vera e propria, le condizioni in cui quest’ultima era prodotta dai Dupont (gran parte delle terre di proprietà dello stato olandese che le affittava ai capitalisti) le ritroviamo anche per la coltivazione, tra le altre cose, del ravizzone.

In seguito alla caduta del regime olandese delle Indie Orientali ci fu l’intervento di Gran Bretagna e Francia che temevano che le popolazioni indigene approfittassero della situazione per dichiarare l’indipendenza.72 Gli strateghi della guerra presso il governo degli Stati Uniti, intanto, davano per scontato, come vedremo più in là, un intervento armato al fine di evitare che le risorse strategicamente importanti delle Indie Orientali cadessero in mani giapponesi.

L’indipendenza indonesiana arrivò solo al termine di una lotta, con gli olandesi che cercavano di mantenere il controllo della colonia anche dopo la Seconda Guerra Mondiale.

Con la resa del Giappone alla fine della Seconda Guerra Mondiale, il 15 agosto 1945 in Indonesia si ebbe un momentaneo vuoto di potere dovuto al fatto che l’Olanda, liberata dall’occupazione tedesca il 5 maggio dello stesso anno, non aveva ancora avuto modo di riorganizzare l’occupazione coloniale in Indonesia. Sukarno e Hatta approfittarono dell’occasione per redigere una Dichiarazione d’Indipendenza da rendere pubblica il giorno dopo la resa giapponese. Il 17 agosto, data della pubblicazione della dichiarazione, segna l’aspirazione indonesiana all’indipendenza.

Ma l’Olanda aveva altri programmi per l’Indonesia, che doveva essere sfruttata al massimo per rimettere in sesto l’economia olandese distrutta dalla guerra. Fu così organizzata una spedizione armata col fine di soffocare il movimento indipendentista.

La guerra tra olandesi e combattenti per la libertà indonesiani andò in stallo finché non intervenirono gli Stati Uniti. I grossi prestiti per la ricostruzione concessi all’Olanda con il piano Marshall, infatti, ponevano come condizione la cessazione del tentativo di riportare l’Indonesia sotto il proprio controllo. All’Olanda non rimase che accettare l’indipendenza indonesiana. Che fu riconosciuta nel 1949, al termine di lunghi negoziati.

L’indonesia, come previsto dagli accordi con l’Olanda con la mediazione degli Stati Uniti, fu però costretta a pagare all’Olanda un’indennizzo pari a 198 miliardi di dollari di oggi.73

L’accordo prevedeva anche il mantenimento del controllo olandese di “tutti i settori ‘moderni’ dell’economia indonesiana”,

come l’industria, le miniere, le piantagioni, gli istituti finanziari e bancari e il commercio internazionale. Ne nacque una “doppia economia”, con olandesi e cinesi indonesiani che controllavano i settori più proficui mentre al resto della popolazione locale restavano le briciole.

Pur essendo la risoluzione del controllo esterno e la “indonesizzazione” dell’economia l’obiettivo principale della politica post-indipendentista, niente fu fatto in questo senso fino alla fine degli anni Cinquanta.74

Gli interessi olandesi furono nazionalizzati “a partire dal 1957”.75 Dall’articolo non è possibile intuire se l’industria dell’olio di ravizzone fosse già nazionalizzata quando Read terminava di scrivere Io, la matita, o se fosse invece ancora sotto il controllo olandese. Secondo fonti di destra, Sukarno nazionalizzò le piantagioni nel 1959;76 finché non si completò la nazionalizzazione voluta da Sukarno, nella prima metà degli anni Sessanta, molti settori industriali rimasero in mani straniere non olandesi.77 Credo che le forniture indonesiane di olio di ravizzone per la Eberhard Faber, mentre Read cantava le lodi delle transazioni spontanee tra “uomini e donne liberi”, provenissero da possedimenti di forze coloniali straniere.

Allarmati dalla retorica economica anticoloniale di Sukarno, gli Stati Uniti attuarono una segreta campagna di destabilizzazione finalizzata alla sua detronizzazione, campagna che fallì. Frank Wisner, vicedirettore del Direttorato delle Operazioni della Cia disse nel 1956: “bisogna tenere sotto pressione Sukarno”.78 L’anno dopo approvò un’operazione paramilitare segreta della Cia.

In questa così come in altre imprese, la Cia sfruttò i vantaggi dell’enorme impero militare degli Stati Uniti. Il quartier generale, grazie agli inglesi, fu istituito nella vicina Singapore. I campi d’addestramento erano nelle Filippine, mentre piste d’atterraggio per bombardieri e aerei da trasporto furono approntate in diverse parti del Pacifico. A Okinawa e nelle Filippine infine furono assoldati, armati ed equipaggiati “soldati di ventura” indonesiani, taiwanesi, filippini e americani.

Per quella che a quei tempi era la più ambiziosa operazione militare della Cia l’esercito americano armò, equipaggiò e addestrò decine di migliaia di ribelli. Gruppi forniti di viveri e radio furono fatti sbarcare sulle coste di Sumatra dai sottomarini americani che incrociavano al largo. L’aviazione militare paracadutò migliaia e migliaia di armi nell’entroterra indonesiano. Una flotta di quindici bombardieri B-26, “disinfettati” per renderli “non attribuibili” e equipaggiati in forma “anonima”, furono messi a disposizione dell’operazione.79

Nonostante le rivolte locali in alcune isole dell’arcipelago, alcune defezioni in ambito militare e il bombardamento terroristico di obiettivi civili ad opera degli aerei della Cia, i ribelli non riuscirono a riportare nessuna vittoria decisiva e Sukarno restò al potere. La Cia, travolta dall’imbarazzo, desistette dopo la cattura di un suo agente che portava con sé documenti incriminatori.80

Ma l’amministrazione Kennedy mantenne l’interesse non solo ad isolare Sukarno in Asia e Africa, ma anche a “liquidarlo”, come si capisce da una conversazione tra Kennedy e il primo ministro britannico Macmillan, registrata segretamente e conservata presso la Cia.81

Nel 1965 gli Stati Uniti ci riprovarono, stavolta con successo. Fu un’operazione molto più grande dei tentativi precedenti, una campagna di destabilizzazione paragonabile solo a quella contro Allende, con un numero di morti mai raggiunto prima da altre operazioni segrete. Furono uccisi, secondo le stime, tra mezzo milione e un milione di “comunisti”, tra i quali, oltre a membri del Partito Comunista, anche membri dell’organizzazione giovani comunisti, sospetti comunisti, persone genericamente di sinistra e perfino persone di etnia cinese.82 Alla campagna contribuirono attivamente le ambasciate statunitensi e la sede della Cia di Giacarta.

Venticinque anni dopo, diplomatici americani rivelarono di aver schedato agenti “comunisti” dai vertici nazionali ai villaggi, un elenco di 5 mila nomi che fu consegnato all’esercito indonesiano, il quale si incaricò di dar loro la caccia e ucciderli. Gli americani spuntavano i nomi man mano che venivano uccisi. Robert Martens, allora membro della commissione politica dell’ambasciata americana a Giacarta, dichiarò nel 1990: “Per l’esercito fu un grande aiuto. Probabilmente molte persone furono uccise, ed è probabile che io stesso abbia le mani sporche di sangue, ma non è un male. Quando è il momento giusto, bisogna colpire duro”…

L’ex capo della Cia in Indonesia Joseph Lazarski e l’ex diplomatico Edward Masters, che era il superiore di Martens, confermarono l’esistenza dell’elenco della morte redatto dalla Cia. Il quartier generale Cia di Langley, per contro, negò categoricamente ogni coinvolgimento.83

Tutto questo sangue per preservare il diritto del capitale estero di estrarre le risorse naturali indonesiane (anche l’olio di ravizzone per la gloria futura di Read, immagino) alle sue condizioni e senza interferenze.

Oltre 1.200 militari indonesiani, “compresi alti ufficiali”, furono addestrati negli Stati Uniti secondo un cosiddetto Programma di Assistenza Militare. Ne nacque un’amicizia duratura tra i vertici militari indonesiani e le forze armate americane. All’indomani del colpo di stato, il segretario alla difesa McNamara fece alcune dichiarazioni davanti a un comitato del senato:

Senatore Sparkman: Quando l’Indonesia reagiva duramente, quando venivamo criticati perché continuavamo a fornire aiuti militari, era difficile capire a cosa servissero quegli aiuti. C’è ancora il segreto?

McNamara: Col senno di poi, credo che quegli aiuti fossero giustificati.

Sparkman: Pensa che abbiamo ricevuto un dividendo?

McNamara: Penso di sì, signore.84

Dopo il rovesciamento di Sukarno, avvenuto in stile Pinochet, il regime golpista di Suharto si diede da fare per adeguare la politica economica ai dettati del capitale internazionale.

Dopo la presa del potere, tra i primi atti di Suharto ci fu l’invio di un gruppo di economisti a Ginevra ad una conferenza detta “Conferenza sugli Investimenti in Indonesia: Contributo alla ricostruzione di una nazione”. La conferenza era stata organizzata da Time Life Corporation of America; oltre a vari economisti indonesiani, partecipò una rappresentanza di multinazionali perlopiù americane. Jeffrey Winters, della Northwestern University di Chicago, dopo aver analizzato i documenti, ricostruisce l’andamento della conferenza: “Erano divisi in cinque comparti: estrattivo in una sala, servizi in un’altra, quindi l’industria leggera, le banche e la finanza. La Chase Manhattan partecipò con una delegazione che sfornava politiche che fossero accettabili per se stessa e per gli investitori. C’erano dirigenti che giravano tra i tavoli dicendo: ‘guardate, ci serve questo; e poi questo, questo e questo’. Sostanzialmente, mettevano su un’infrastruttura legale che favorisse gli investimenti in Indonesia. Non ho mai saputo di casi simili, in cui il capitale globale siede ad un tavolo con i rappresentanti di uno stato teoricamente sovrano e detta le condizioni per il proprio ingresso in quel paese.” Nel 1967, con l’approvazione della “legge sugli investimenti esteri”, Suharto tradusse in legge le richieste del capitale internazionale”.85

Dagli Alberi si Torna alla foresta

In un certo senso, il libretto di Read è, lo dico un’altra volta, “vero nel senso migliore, tecnicamente vero”. È vero nel senso che tutte o quasi tutte le transazioni di cui parla sono “spontanee”. Niente pistole, niente soldati, né poliziotti a costringere le parti. Il furto e altre forme di sopruso, come vediamo, fanno da sfondo ad ogni passaggio nella produzione di una matita.

Ed è vero, come nota Read all’inizio: “Semplice? Eppure non c’è una sola persona sulla terra che riesca a fabbricarmi.”86

Read, entro i suoi limiti, ha perfettamente ragione a vantare l’importanza della conoscenza diffusa in qualunque sistema economico, oltre che ad esaltare l’utilità della formazione di un prezzo di equilibrio come strumento di coordinazione.

Ma la storia non è tutta lì. Primo, perché dietro ognuna di quelle transazioni c’è tutto uno sfondo fatto di costrizioni, con armi, soldati e poliziotti.

Secondo, perché c’è una costrizione sistemica che crea lo sfondo contro il quale deve avvenire l’intero processo. Secoli di costrizioni hanno creato le condizioni di fondo necessarie a far sì che la parte più debole accetti “spontaneamente” le condizioni offerte dalla parte più forte senza la presenza immediata di armi.

La scelta dei componenti, dove reperirli, dove e come combinarli fino ad ottenere la matita finita, non necessariamente tutto ciò avveniva come spiega Read. Tutto il processo, con le sue catene di fornitura e distribuzione, può dispiegarsi in una miriade di modi. Tutto dipende dallo sfondo su cui si fanno le scelte.

Le basi istituzionali del capitalismo e del sistema salariale sono state imposte con la violenza fin dall’inizio. Per secoli proprietari terrieri e capitalisti in combutta con lo stato annullarono i diritti di possesso della terra di cui godeva gran parte della popolazione in Occidente; così che, diventate nullatenenti, a queste persone non restava che accettare un lavoro salariato a qualunque condizione offerta. E quando non bastava impedire loro di accedere alla terra per procurarsi di che vivere, ecco che questi “uomini senza padrone”, questo “canagliume cocciuto” veniva costretto con metodi più diretti, come la Vagabonds Act (legge anti vagabondaggio), le Laws of Settlement (leggi sugli insediamenti), la Riot Act (legge contro le rivolte) e la Combination Act (legge sull’associazionismo).

Fuori dall’Occidente, i paesi coloniali si servirono di una simile combinazione di espropri e violenze al fine di sottomettere le popolazioni, all’interno della “divisione del lavoro internazionale”, al loro ruolo di esportatori verso l’Occidente di risorse naturali e di importatori di prodotti occidentali.

Questa divisione del lavoro continuò anche dopo l’indipendenza formale grazie a un ordine globale impostato dalle potenze occidentali dopo la Seconda Guerra Mondiale. La politica estera, con le sue istituzioni allineate con i governi occidentali, fu una conseguenza diretta degli interessi che avevano portato alla Guerra del Pacifico.

A partire dalla metà degli anni Quaranta, analisti politici del Dipartimento di Stato cominciarono a dire che la sfera di co-prosperità dell’Asia orientale promossa dal Giappone avrebbe potuto attirare un numero critico di paesi le cui risorse e i cui mercati erano d’importanza critica per la sopravvivenza dell’economia industriale statunitense, sottraendoli alla divisione del lavoro internazionale. Secondo i loro calcoli, le risorse della “Grande Area” (emisfero occidentale, Impero Britannico e Pacifico Occidentale) rappresentavano il minimo necessario a mantenere l’economia statunitense nella sua forma esistente. In particolare, si temeva di perdere lo stagno dell’Indocina francese e la gomma delle Indie Orientali Olandesi. I timori di Franklin Delano Roosevelt al riguardo spinsero gli Stati Uniti ad imporre l’embargo petrolifero contro il Giappone e ad appoggiare la guerriglia cinese.87

Gli obiettivi americani nel Pacifico erano illustrati nel memorandum del CFR E-B34 dal titolo “Forme di collaborazione economica, introduzione. Il ruolo della Grande Area nella politica economica americana.” (24 luglio 1941): si trattava di “assicurare l’integrazione” al fine di “trasformare il potenziale economico dell’area in potere militare.” Ai fini di questa integrazione serviva “un programma cosciente di misure di ampio respiro… che assicurino l’utilizzo pieno delle risorse economiche dell’intera area.” L’espansione giapponese, in questo senso, “rappresenta una minaccia continua all’integrazione della Grande Area.”88

La politica estera statunitense del dopoguerra puntava similmente a impedire l’ascesa di una potenza in grado di minacciare il controllo occidentale della “Grande Area”, oltre che impedire che governi estremisti in paesi economicamente importanti del sud globale rivedessero l’attuale divisione del lavoro o causassero un’uscita dalla Grande Area.

L’idea di un’economia globale integrata nei bisogni dell’Occidente e gestita principalmente dagli Stati Uniti risaliva a prima della Guerra Fredda, ma anche senza la rivalità Urss-Occidente non sarebbe cambiata. Come già prima, anche dopo la Seconda Guerra Mondiale l’obiettivo principale della politica estera statunitense, senza particolari riguardi verso l’Urss, mirava a contrastare e “contenere” ogni nuova potenza (definita a priori un “aggressore”) che osasse sfidare questa egemonia sull’equilibrio prebellico della Fortezza Europa o della Sfera di Co-prosperità.

Agli inizi della Guerra Fredda la minaccia sovietica era vista soprattutto in riferimento alla Grande Area, in quanto l’Urss rappresentava un esempio per lo sviluppo economico del Terzo Mondo. Molti decisori politici pensavano che il blocco sovietico non avrebbe attaccato militarmente l’Occidente. La minaccia più realistica, secondo gli esperti del Woodrow Wilson Center del 1955, era “una preoccupante riduzione delle risorse potenziali nonché delle opportunità di mercato dell’Occidente a causa di una sottrazione ad opera delle aree comuniste, con conseguenti cambiamenti che ridurrebbero la volontà e la capacità di integrare le economie industriali occidentali…”89

L’ordine postbellico pianificato dagli Stati Uniti a cominciare dal 1944, delineava le implicazioni del caso per il mondo coloniale e post-coloniale. Secondo Charles P. Taft, direttore dell’ufficio per l’economia di guerra del Dipartimento di Stato nel 1944, prima o poi l’industria statunitense avrebbe dovuto importare gran parte del petrolio e dei metalli. Gli Stati Uniti avrebbero finito per esportare beni e capitali verso i paesi in via di sviluppo, i quali avrebbero pagato esclusivamente con esportazioni di materie prime. Per far questo occorreva una versione allargata della politica statunitense delle “Porte Aperte”, così che tutti gli interessi stranieri operanti in un dato paese fossero in linea non solo con la nazione prediletta, ma anche con i suoi interessi interni. Questo significava in particolare che non erano tollerate politiche di sviluppo che prevedevano la sostituzione delle importazioni o protezionismi nei confronti dell’industria locale.90

Secondo il documento NSC 5432 del Consiglio per la Sicurezza Nazionale, dal titolo “U.S. Policy Toward Latin America” (La politica statunitense nei confronti dall’America Latina, Ndt), ad esempio, l’obiettivo primario degli Stati Uniti era la garanzia di “un accesso adeguato degli Stati Uniti alle materie prime essenziali per la sicurezza del paese”, in particolare con “pressioni interne” nei paesi post-coloniali, con l’obiettivo di “incrementare la produzione e diversificare l’economia” (corsivo mio). Per ottenere ciò occorreva “incentivare relazioni più strette tra il personale militare latino-americano e quello statunitense per rafforzare la comprensione e orientare i paesi verso il soddisfacimento degli obiettivi degli Stati Uniti, riconoscendo che le istituzioni militari hanno un ruolo importante nel governo.”91

Un altro documento NSC dell’agosto 1962, dal titolo “U.S. Overseas Defense Policy” (Politica di difesa all’estero, Ndt) sanciva il diritto di intervenire militarmente in paesi del Terzo Mondo al fine di proteggere interessi puramente economici. Ancora più che in passato, era importante che “i paesi in via di sviluppo si evolvano fino a permettere condizioni mondiali consone.” Tradotto significava che “forza lavoro e risorse nazionali” non dovevano cadere “in mani comuniste”, ma anche che era interesse economico degli Stati Uniti che “risorse e mercati dei paesi poco sviluppati restassero a disposizione nostra e di altri paesi del mondo libero.”92

Ai tempi di Read, nonostante si fosse in epoca post-coloniale vigeva ancora il vecchio ordine coloniale: paesi coloniali ed ex coloniali scambiavano materie prime e prodotti agricoli con valuta estera, che poi utilizzavano per acquistare prodotti dell’industria occidentale. Come detto, per mantenere la “divisione internazionale del lavoro” occorreva un uso massiccio della forza. Nei decenni seguenti la divisione del lavoro cambia fino a dipendere sempre più dall’azione dello stato. Dai tempi di Io la matita alcune cose sono cambiate: il capitale non è più prevalentemente nazionale e gran parte della produzione economica globale è controllata da aziende transnazionali. Secondo la nuova divisione del lavoro, i paesi del sud del mondo, più che importare prodotti industriali dall’Occidente, forniscono forza lavoro agli sweatshop, le fabbriche dello sfruttamento che producono beni entro i loro stessi confini. Niente a che vedere con l’innocente “divisione comparata del lavoro” di ricardiana memoria, però, dove le parti non hanno alcun ruolo. In questa divisione del lavoro estrattiva lo stato ha un ruolo sempre più forte: imporre termini svantaggiosi ai paesi ex coloniali.

Le vecchie industrie occidentali delocalizzano tutta la produzione in fabbriche nel Terzo Mondo, teoricamente indipendenti di “terze parti”, il cui controllo però resta nelle mani del capitale occidentale. Il meccanismo sta nelle leggi draconiane sulla proprietà intellettuale (un regime imposto dall’Uruguay Round del GATT e da altri cosiddetti “accordi di libero mercato”), e il risultato è un protezionismo ancora più marcato dei dazi istituiti dalla legge Smoot-Hawley. Le differenze principali: 1) se a beneficiare dei vecchi dazi erano le industrie nazionali, con la proprietà intellettuale i benefici vanno alle aziende transnazionali; e 2) mentre i dazi avevano validità solo entro i confini nazionali, i brevetti fanno da diaframma tra le aziende e il resto del mondo. Tra i punti in comune c’è il conferimento di un monopolio legale sul diritto di vendere un particolare prodotto in un dato mercato. Dato questo regime, le aziende occidentali possono delocalizzare l’intera produzione a società d’appalto formalmente indipendenti in paesi in cui la manodopera è a buon mercato. Basta controllare finanziamenti, marketing e proprietà intellettuale per mantenere un monopolio totale della vendita delle merci finali. Che, in virtù del marchio, si vendono a prezzi che sono un multiplo del prezzo della manodopera più le materie prime.

Questa “divisione del lavoro” gode inoltre di forti agevolazioni. Una grossa fetta degli aiuti internazionali e dei prestiti della Banca Mondiale vanno a finanziare le infrastrutture, come le strade, che permettono alle industrie di funzionare; senza infrastrutture non sarebbe possibile esportare il capitale industriale occidentale. Quanto al trasporto dei beni dal sud del mondo agli scaffali dell’Occidente, è garantito dalla “difesa” statunitense: tra le principali missioni della marina militare c’è il mantenimento delle rotte dei mercantili: la marina è la voce principale nel bilancio della “difesa” degli Stati Uniti.

Rispetto ai tempi di Io, la matita, oggi il capitalismo globale è ancora più coercitivo e dipendente dallo stato. Come ai tempi di Read, però, che tutto questo sia “libero commercio” è ancora un luogo comune dei libertari di destra.

Mano Invisibile o “Spirito Organizzatore”?

Io, la matita si conclude con un’esaltazione dei presunti insegnamenti nascosti nel processo di fabbricazione di una matita (il “libero mercato” che dirige ogni fase grazie alla conoscenza diffusa di individui che interagiscono individualmente).

C’è qualcuno che vuol mettere in dubbio quanto ho detto prima, ovvero che non c’è una singola persona sulla faccia della terra che saprebbe come costruirmi senza aiuto?

Effettivamente, milioni di esseri umani hanno partecipato alla mia creazione, e ciascuno di essi non conosce che una minima parte di quelli che hanno contribuito all’opera. … Non c’è una singola persona, compreso il presidente della fabbrica di matite, che contribuisca per più di una piccola, infinitesima parte di competenza, alla mia costruzione. …

C’è un fatto ancor più sorprendente: è l’assenza di una mente superiore, di qualcuno che impone o che dirige con la forza quelle numerose azioni che mi portano a esistere. Non v’è traccia di una persona siffatta. Invece, troviamo al lavoro la Mano Invisibile. Questo è il mistero a cui mi riferivo prima. …

Io, la matita, sono una complessa combinazione di miracoli: alberi, zinco, rame, grafite e così via. Ma a questi miracoli che si manifestano in natura s’aggiunge un miracolo ancora più straordinario: la configurazione delle energie creative umane – milioni di diversi “saper fare” che si ordinano naturalmente e spontaneamente in risposta a desideri e necessità umani e in assenza di ogni mente pianificatrice! …

Questo è quanto intendevo quando scrivevo: “se riuscirete ad afferrare il miracolo che simboleggio, potreste contribuire a salvare quella libertà che l’umanità sta perdendo tanto infelicemente”. Perché, se ci si rende conto che queste capacità si organizzano naturalmente, del tutto automaticamente, in modelli creativi e produttivi in risposta ai desideri e alle necessità delle persone – vale a dire, in assenza di qualsiasi intervento governativo o coercitivo – allora si finirà per possedere un ingrediente assolutamente essenziale per la libertà: la fede nelle persone libere. La libertà è impossibile in assenza di questa fede.93

Ma anche quando critica la pianificazione centrale (“la mente pianificatrice”), il ragionamento di Read mostra una debolezza logica al limite dell’incoerenza.

Una volta che un governo abbia ottenuto il monopolio di un’attività creativa come, per esempio, la consegna della posta, la maggior parte degli individui crederà che la posta non possa essere efficacemente gestita da uomini liberi. E questo è il motivo: ciascuno ammette di non sapere tutte le cose che servirebbero per fornire il servizio postale. Egli ammette pure che nessun altro singolo individuo abbia a disposizione tali conoscenze. L’una e l’altra cosa sono vere. Nessun singolo possiede conoscenze sufficienti per effettuare la distribuzione nazionale della posta, non più di quanto sappia abbastanza per produrre una matita. Ora, senza la fede nelle persone libere – nell’inconsapevolezza che milioni di piccoli “saper fare” si formerebbero naturalmente e collaborerebbero in modo miracoloso, per concorrere alla soddisfazione di questa necessità – l’individuo non può impedirsi di giungere all’errata conclusione che la posta possa essere consegnata solo da uno “spirito organizzatore” governativo.94

Ma le aziende logistiche come FedEx e UPS non si differenziano dal servizio postale pubblico perché non hanno lo “spirito organizzatore” (la struttura è sostanzialmente la stessa, praticamente la stessa struttura gerarchica aziendale) ma solo perché le poste hanno il monopolio delle lettere e delle raccomandate. (Per esperienza personale, posso dire che a volte il servizio postale è più efficiente di UPS o FedEx, e fa un uso migliore della conoscenza diffusa dei suoi dipendenti).95

Se il servizio postale è governato da uno “spirito organizzatore”, se è gestito internamente da una piramide burocratica, lo stesso vale per qualunque altra azienda di dimensioni simili. Ma se per “spirito organizzatore” s’intende limitazione della concorrenza, allora tutte le grandi aziende di un comparto caratterizzato da un mercato oligopolistico sono governate da “spiriti organizzatori”.

Se io, la matita, fossi l’unico articolo a poter dare testimonianza di quel che donne e uomini possono fare quando siano lasciati liberi di mettersi alla prova, allora gli scettici avrebbero di che dubitare. C’è però una grande abbondanza di prove che va in questo senso; sono dovunque intorno a noi. La distribuzione della posta è estremamente semplice se paragonata, per esempio, alla produzione di un’automobile o di un computer o di un telefono cellulare o di una grande macchina industriale, e così pure a decine di migliaia di altre cose.96

Ma tutto questo avviene in un quadro istituzionale di pianificazione che, se possibile, è ancora più complesso della consegna della posta, per non dire della fabbricazione di matite. L’industria dell’auto, in particolare la General Motors di William Durant, era un esempio pionieristico di azienda multi-divisione, o M-form. La grande azienda era gestita internamente tramite un sistema contabile, comprendente anche i prezzi di trasferimento interni, molto simile a quelli utilizzati dalle agenzie di pianificazione come il Gosplan in economie pianificate centralmente come quella sovietica. Ironicamente, l’obiettivo principale della “gestione scientifica”, da Andrew Ure a Frederick Taylor, era l’eliminazione al massimo grado (anche a costo di una minore efficienza) della dipendenza da quella conoscenza diffusa tanto decantata da Read, al fine di ridurre il potere negoziale dei lavoratori e assoggettarli meglio al controllo manageriale e alla pianificazione.

Read cita anche le telecomunicazioni. Dice: “Parliamo di consegna e di distribuzione di cose? Ebbene, laddove gli uomini sono stati lasciati liberi di fare i propri tentativi, essi diffondono la voce umana intorno al mondo in meno di un secondo…” Proprio il Bell System, frutto dello spezzettamento della AT&T negli anni Ottanta, è un esempio da manuale di monopolio imposto dallo stato. Le sue origini risalgono alla Bell Patent Association, associazione nata nel 1875 che possedeva brevetti (monopoli imposti dallo stato) su quasi tutto ciò che aveva attinenza con il telefono. Il monopolio durò fino all’ultimo decennio dell’Ottocento, quando i brevetti cominciarono a scadere. Compagnie telefoniche indipendenti cominciarono a comparire a partire dal 1894. Nel 1907, metà di tutti i servizi telefonici erano forniti da indipendenti e i profitti della Bell calarono dal 40% all’8%. Bell System reagì alla minaccia concorrenziale trasformandosi in monopolio regolato, con le amministrazioni cittadine che davano alla Bell l’esclusiva dei servizi telefonici in una data località.97 Insomma, per un secolo negli Stati Uniti si continuò a dipendere da questa o quella versione di “Ma Bell” (come popolarmente era conosciuta Bell System, NdT) semplicemente perché molti “uomini” non furono “lasciati liberi di fare i propri tentativi”.

Gli stessi “uomini… lasciati liberi di fare i propri tentativi… trasportano 300 passeggeri da Roma a Milano in poco più di tre ore…” Se parliamo di aviazione civile, parliamo di un settore che, citando il Barone di Münchhausen, sembra sollevarsi tirandosi per il codino. Le infrastrutture aeroportuali sono infatti opera dello stato, essendo costruite quasi interamente con soldi pubblici, e insistono su terreni espropriati. Secondo James Coston, nel 1992 “il valore di sostituzione del sistema aeroportuale statunitense, fatto sostanzialmente con fondi federali e obbligazioni municipali esenti da imposte” era stimato in mille miliardi. Solo a partire dal 1971 lo stato cercò di ammortizzarne le spese imponendo il pagamento di diritti d’uso; ma anche così continuò a sostenere il sistema aeroportuale civile con tre miliardi l’anno per la rete di torri di controllo, i centri di controllo del traffico e i radar.98 Quanto all’industria dei jumbo, i grossi aerei passeggeri, fu perlopiù un prodotto della Guerra Fredda. Spiega Frank Kofsky, in Harry Truman and the War Scare of 1948, che ai tempi della smobilitazione post-bellica un’industria aeronautica sommersa dalle perdite e sull’orlo del fallimento fu salvata dalle ordinazioni di bombardieri voluti da Truman per la Guerra Fredda. David Noble era dell’opinione che i jumbo non avrebbero mai visto la luce senza i grossi acquisti dello stato. La produzione destinata ai trasporti civili era troppo piccola per giustificare gli impianti costosi e complessi.

…portano il gas dal Texas ad una fonderia di New York a prezzi stracciati e senza sussidi; portano il petrolio dal Golfo Persico alla nostra costa orientale, dall’altra parte del mondo, per meno di quello che lo stato chiede per consegnare una lettera alla casa di fronte!99

Curiosamente, Read cita i combustibili fossili come se rappresentassero un settore industriale in cui regna la collaborazione spontanea e non ci sono interventi statali! Ironie a parte, lo schema costituito da espropri e trattamenti di favore per le industrie estrattive, già visto per l’industria del legname, vale anche per petrolio, gas e carbone. A cui dobbiamo aggiungere l’esproprio per pubblica utilità per far passare gli oleodotti, la limitazione della responsabilità in caso di inquinamento e lo svuotamento normativo dell’illecito civile. Anche l’industria petrolifera ha dietro tutta una storia colonialista (tra i tanti, l’appoggio britannico e statunitense alla famiglia saudita e la detronizzazione di Mossadegh dopo la nazionalizzazione della British Petroleum). Ma soprattutto ci sono le guerre scatenate dagli Stati Uniti per il controllo del petrolio nel Golfo Persico, con la marina militare messa a protezione delle rotte petrolifere con soldi dei contribuenti. Tutto sommato, il petrolio a basso costo non è poi così economico.

La lezione che ci tengo a trasmettervi è questa: lasciate libere le energie creative. Limitatevi a organizzare la società affinché agisca in armonia con questa lezione. Fate in modo che l’apparato legale della società rimuova ogni ostacolo meglio che può. Permettete a questa conoscenza creativa di fluire liberamente. Abbiate fiducia, donne e uomini liberi sapranno affidarsi alla Mano Invisibile.100

Nel nostro mondo reale il capitalismo, così come il precedente sfruttamento feudale di cui ha preso il posto, ha bisogno di impedire che le forze creative abbiano libero corso. Serve molta violenza per tenere in piedi le strutture di potere che rendono possibile l’illusione della Mano Invisibile.

Molto è stato fatto, in termini ideologici, per nascondere la violenza storica dietro la facciata dello “scambio volontario”. Abbiamo visto l’azione della moderna teoria economica a proposito della produttività marginale e delle preferenze temporali.

Sottolineando il ruolo dello stato in quasi tutti gli ambiti del capitalismo aziendale, dal finanziamento delle nuove tecnologie al sovvenzionamento dei trasporti a lunga distanza e altro, Chomsky commenta così: “evocare la forza del mercato, come se fosse una legge naturale, è un parlare da ciarlatani. Una sorta di guerra ideologica.”101

E così è.

Nota Finale: È Importante non Deviare il Discorso

Qualcuno dirà che, a prescindere dalla validità degli esempi specifici, il principio di base (la coordinazione basata sul prezzo è superiore alla pianificazione centrale) tiene.

Sono d’accordo, ma solo fino a un certo punto.

Primo, non è facile isolare il principio economico dal contesto, visto che Read presenta il sistema capitalista degli anni Cinquanta, con tutte le sue istituzioni, come esempio di libero mercato basato sullo scambio volontario tra persone libere. Se pensiamo che gli attori principali di quel violento, delinquenziale sistema capitalista postbellico erano tra i finanziatori e gli organizzatori del pensatoio di Read, e che Io, la matita fu scritto per spacciare pubblicamente quel sistema come “libera impresa”, c’è poco da imbellettare per farlo apparire quello che non è.

Secondo, un sistema dei prezzi immacolato, o neutro, non esiste. I prezzi di realizzo possono formarsi liberamente nelle più svariate condizioni, secondo come cambiano le norme sulla proprietà e l’organizzazione della produzione.

Terzo, il fatto che i prezzi di realizzo si formino liberamente non significa necessariamente che questi “uomini e donne liberi” stiano davvero agendo spontaneamente.

Insomma, se si vuole convincere qualcuno che il prezzo di mercato è il miglior sistema di coordinazione è meglio scegliere un altro opuscolo e smetterla di rifilare questa polpetta avvelenata agli studenti. Insomma, è tempo che Io, la matita vada in pensione.

Le nostre traduzioni sono finanziate interamente da donazioni. Se vi piace quello che scriviamo, siete invitati a contribuire. Trovate le istruzioni su come fare nella pagina Sostieni C4SS: https://c4ss.org/sostieni-c4ss.

Note

1. Leonard E. Read, I,Pencil: My Family History as Told to Leonard E. Read (Atlanta: Foundation for Economic Education, March 2019). Nota del traduttore: Per la traduzione italiana ho preso come riferimento il seguente testo disponibile liberamente su internet: Leonard Read, Io, la matita, ed. Istituto Bruno Leoni .

2. Ivi.

3. Ivi.

4. Ivi.

5. .

6. Leonard Read, Io, la matita.

7. Alex Carey, Taking the Risk Out of Democracy: Corporate Propaganda versus Freedom and Liberty. Edited by Andrew Lohrey, Foreword by Noam Chomsky (University of New South Wales, 1995), p. 28.

8. Ivi, pag. 28.

9. Ivi, pag. 29.

10. Ivi, pag. 30.

11. Ivi, pag. 30.

12. Kim Phillips-Fein, Invisible Hands: The Businessmen’s Crusade Against the New Deal (W.W. Norton, 2008), p. 26. I numeri di pagina sono quelli della versione pdf (tramite Cloud Convert) della versione epub disponibile presso Library Genesis .

13. Leonard E. Read Journal at FEE (archiviato su Internet Archive) .

14. 15 agosto 1952 ; nella nota del 27 definisce gli statuti sociali dei “sindacati CIO” “una dichiarazione comunista più forte del Manifesto” (visto il 5 febbraio 2023).

15. Phillips-Fein, Invisible Hands, pag. 60.

16. Jennifer Burns, Goddess of the Market: Ayn Rand and the American Right (New York: Oxford University Press, 2009), pag. 115.

17. Henry Hazlitt, “The Early History of FEE,” The Freeman: Ideas on Liberty (May 2006), pagg. 38-39.

18. Ivi, pag. 39.

19. “Eberhard Faber,” Wikipedia . Visto il 26 febbraio 2023.

20. Leonard Read, Io, la matita.

21. “Eberhard Faber Pencil Factory,” Wikipedia . Visto il 26 febbraio 2023.

22. “Eberhard Faber.”

23. Profilo della “California Cedar Products Company”, LinkedIn . Visto il 26 gennaio 2023.

24. “California Cedar Products Company – Company Profile, Information, Business Description, History, Background Information on California Cedar Products Company,” Reference for Business . Visto il 26 gennaio 2023.

25. “Yokuts,” Wikipedia . Visto il 26 gennaio 2023.

26. John Quiggin, “I Pencil: A product of the mixed economy (updated),” Crooked Timber, April 16, 2011 .

27. Gabriel Kolko, The Triumph of Conservatism: A Reinterpretation of American History (New York: The Free Press of Glencoe, 1923), p. 3.

28. Leonard Read, Io, la matita.

29. Quiggin, “I Pencil”.

30. Albert Jay Nock, Our Enemy, the State (Delavan, Wisconsin: Hallberg Publishing Corporation, 1983), pag. 102.

31. Matthew Josephson, The Robber Barons: The Great American Capitalists 1861-1901 (New York: Harcourt, Brace, and World, 1934, 1962), pagg. 77-78.

32. Murray N. Rothbard, Power & Market: Government and the Economy (Menlo Park, California: Institute for Humane Studies, 1970), pag. 70.

33. Josephson, The Robber Barons, pagg. 83-84.

34. Michael J. Piore and Charles F. Sabel, The Second Industrial Divide: Possibilities for Prosperity (New York: Harper-Collins, 1984), pag. 66.

35. Ivi, pagg. 66-67. Tra l’altro, questo è solo un esempio di come per lungo tempo il diritto comune è stato modificato a livello statale dai giudici per renderlo più favorevole alle imprese. Vedi Morton Horwitz, The Transformation of American Law, 1780-1860. Studies in Legal History (Cambridge and London: Harvard University Press, 1977).

36. Lewis Mumford, The City in History: Its Transformations, and Its Prospects (New York: Harcourt, Brace, & World, 1961), pagg. 333-334.

37. Noam Chomsky, “How Free is the Free Market?” Resurgence no. 173 (Nov/Dec 1995). Citato in .

38. Leonard Read, Io, la matita.

39. James O’Connor, The Fiscal Crisis of the State (New York: St. Martin’s Press, 1973), pagg. 6-7.

40. Ivi, pag. 24.

41. Leonard Read, Io, la matita.

42. Thomas Hodgskin, “Labour Defended Against the Claims of Capital” (1825). Presso Marxists.org .

43. Per apprendere di più su questa funzione oscurantista delle dottrine economiche neoclassica e austriaca, in particolare sul marginalismo e le preferenze temporali, vedi: Carson, “The Methodenstreit Revisited: Marginalism and the Lost Power Context” (C4SS 2021) .

44. Vedi anche: Carson, “Il Credito Bene Comune Appropriato”, Center for a Stateless Society .

45. Leonard Read, Io, la matita.

46. Ivi.

47. Ivi.

48. “British Ceylon,” Wikipedia . Visto il 29 gennaio 2023.

49. “Kahatagaha Graphite Mine,” Wikipedia ; “Bogala Graphite Mine,” Wikipedia . Visti il 29 gennaio 2023.

50. “Graphite Mining in Ceylon,” Scientific American, January 8, 1910, pagg. 37, 39.

51. “Kahatagaha Graphite Mine”; “Don Charles Gemoris Attygalle,” Wikipedia , Visto il 29 gennatio 2023.

52. Michael Roberts, “Problems of Social Stratification and the Demarcation of National and Local Elites in British Ceylon,” The Journal of Asian Studies, 33:4 (1974), pagg. 551-552.

53. Ivi.

54. Ivi.

55. Ivi.

56. Leonard Read, Io, la matita.

57. “The top 10 biggest copper mines in the world,” Mining Technology, November 4, 2013 ; Bruno Venditti, “Which countries produce the most copper?” World Economic Forum, December 12, 2022 .

58. John Bellamy Foster and Brett Clark, “Ecological Imperialism: The Curse of Capitalism,” Socialist Register (2004) , pagg. 190-191.

59. “Chuquicamata,” Wikipedia . Visto il 18 febbraio2023.

60. Charles William Centner, “Great Britain and Chilean Mining 1830-1914,” The Economic History Review, Vol. 12, No. 1/2 (1942), pag. 79.

61. “Chilean nationalization of copper,” Wikipedia . Visto il 18 febbraio 2023.

62. Memorandum From the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger) to President Nixon, July 11, 1969, .

63. Markos Mamalakis, “The American Copper Companies and the Chilean Government, 1920-1967. Profile of an Export Sector.” Center Discussion Paper No. 37 (New Haven: Yale University Economic Growth Center, September 22, 1967), pag. 13.

64. “Chilean nationalization of copper.”

65. William Blum, Killing Hope: U.S. Military and CIA Interventions Since World War II (Monroe, Maine: Common Courage Press, 1995), pagg. 206-207.

66. Ivi, pag. 208.

67. Ivi, pagg. 214-215.

68. Ivi, pag. 209.

69. Ivi, pag. 211.

70. Leonard Read, Io, la matita.

71. B. J. Widick, “East Indies – A Tender Morsel for the Imperialist Appetite,” Labor Action 4:8 (June 3, 1940). Hosted at Marxists.org . Visto il 29 gennaio 2023.

72. Ivi.

73. Idries De Vries, “Neo-Colonialism And The Example Of Indonesia – Analysis,” Eurasia Review, 3 novembre 2011 . La fonte parla di 150 miliardi come valore equivalente nel 2011; per le cifre riportate da me mi sono servito di una tabella di conversione su internet.

74. Ivi.

75. Ivi.

76. William E. James, “Lessons from Development of the Indonesian Economy,” Journal of Asian Studies 5:1 (Spring 2000) , pag. 32.

77. William A. Redfern, “Sukarno’s Guided Democracy and the Takeovers of Foreign Companies in Indonesia in the 1960s.” Tesi di dottorato in storia (University of Michigan, 2010).

78. Blum, Killing Hope, pag. 99.

79. Ivi, pag. 102

80. Ivi, pagg. 102-103.

81. Ivi, pag. 195.

82. Ivi, pagg. 193-194.

83. Ivi, pag. 194.

84. Ivi, pag. 196.

85. De Vries, “Neo-Colonialism And The Example Of Indonesia – Analysis.”

86. Leonard Read, Io, la matita.

87. Laurence Shoup and William Minter, “Shaping a New World Order: The Council on Foreign Relations’ Blueprint for World Hegemony,” in Holly Sklar, ed., Trilateralism: The Trilateral Commission and Elite Planning For World Management (Boston: South End Press, 1980), pagg. 135-156.

88. G. William Domhoff, The Power Elite and the State (New York: Aldine de Gruyter, 1990), pagg. 161-162.

89. William Yandell Elliot, ed., The Political Economy of American Foreign Policy (Holt, Rinehart & Winston, 1955) pag. 42.

90. Gabriel Kolko, The Politics of War: The World and United States Foreign Policy, 1943-1945 (New York: Pantheon Books, 1968, 1990), pag. 254.

91. Noam Chomsky, On Power and Ideology: The Managua Lectures (Boston: South End Press, 1987), pp. 20-21.

92. Gabriel Kolko, Confronting the Third World: United States Foreign Policy 1945-1980 (New York: Pantheon Books, 1988), pag. 130.

93. Leonard Read, Io, la matita.

94. Ivi.

95. Carson, “Perché Grande-Piccolo e Verticale-Orizzontale Conta più di Pubblico-Privato” Center for a Stateless Society, 16 novembre 2020 .

96. Leonard Read, Io, la matita.

97. Mary Ruwart, Healing Our World: The Compassion of Libertarianism (Kalamazoo: Sunstar Press, 1992, 2015), pp. 112-114.

98. James Coston, Amtrak Reform Council, 2001, in “America’s long history of subsidizing transportation” .

99. Leonard Read, Io, la matita.

100. Ivi.

101. Noam Chomsky, “How Free is the Free Market?” Resurgence no. 173 (Nov/Dec 1995). Reproduced at .

The Center for a Stateless Society (www.c4ss.org) is a media center working to build awareness of the market anarchist alternative


Source: https://c4ss.org/content/59618


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